Da tempo anelavo ad un racconto
breve di questo tipo, come veicolo di un messaggio sociale.
Narra la vicenda di un bambino-soldato, Jamail, vista nella
prospettiva del piccolo, durante il sanguinoso conflitto
civile in Sudan, nel 2000. L’episodio che racconto
si svolge nell’area sudanese del Nilo superiore,
ricca di petrolio, che conobbe gli scontri più efferati
tra esercito regolare e SPLA (Esercito di liberazione del
popolo sudanese), le cui forze, composte da disperati,
cambiavano spesso campo. Il governo, d’altra parte,
incoraggiava lo scontro interno fra le fazioni. Lontano
dai riflettori massmediatici, filoamericani, il conflitto
conobbe atrocità di ogni tipo, molto più gravi
di quelle, tanto per fare un esempio, successe in Iraq.
Non da ultimo, la coscrizione forzata dei bambini, oggetto
di un rapporto di Amnesty International (che propose il
divieto di coscrizione per i minori di diciotto anni) e
di un interessantissimo articolo di John Rilke, comparso
in Italia con il titolo di “Bambini soldati”.
*Il sedicenne Mohanad Abdelrahman M. Zakana è morto
nel campo d'addestramento militare di Aljouli in maggio.
Si ritiene che la sua morte sia stata causata dal duro trattamento
riservato alle giovani reclute. Sembra che gli sia stato
negato un trattamento medico adeguato, dopo che era crollato
per un colpo di sole.
Rapporto annuale di Amnesty International, 2001.
Un ponte
Jamail ha undici anni. Tiene il suo fucile-mitragliatore
in mano, scruta l’orizzonte in cerca del nemico.
Nessuno, dico nessuno deve attraversare quel ponte sul Nilo.
I guerriglieri sudanesi dell’opposizione hanno strappato Jamail
alla sua gente, e spedito alla coscrizione forzata. O io, o qualcun altro,
afferma il bambino se questionato dai superiori, con convinzione, in
un dialetto stentato. Lui è contento di essere lì, al fronte:
d’altra parte, è meglio uccidere che morire di fame. La
sua casa e il suo bestiame sono stati saccheggiati o dati alle fiamme,
così come quelli di altri, per impedire alla popolazione civile
di tornare nelle proprie abitazioni. Un affare di petrolio. Comunque,
gli hanno fatto capire che, combattendo, può cullare la speranza
di un futuro migliore, per lui e per i suoi cari. Nel Sudan i bambini
come Jamail li chiamano “kidogos” (bambini-soldato).
Jamail indossa una mimetica lacerata e sporca di sangue,
apparteneva ad un frugolo che la indossava prima di lui:
si possono ancora distinguere chiaramente alcuni fori di
pallottola, ricuciti alla carlona.
Nessuno, dico nessuno deve attraversare quel ponte. È un viadotto
come un altro, fatto di legno e puntellato a livello dell’intelaiatura,
come quasi tutti i ponti, in Sudan. Ma è basilare per le forze
dell’opposizione conservarne il possesso.
Jamail è stato messo lì in qualità di cecchino, è seminascosto
in un ciuffo di sterpaglie: gli hanno detto che spara piuttosto bene.
D’altra parte, nel combattimento corpo a corpo non avrebbe speranze.
Akeem, un camerata di sedici anni, lo prende sempre in giro, perché Jamail è minuto,
e quando spara, il rinculo lo fa sobbalzare come un fuscello. Akeem è l’unico
che gli rivolge la parola. Voleva entrare a far parte dell’esercito
regolare, ma lo Spla lo ha reclutato a forza. Lui non voleva. Per convincerlo,
i guerriglieri hanno pestato, violentato e torturato sua madre e sua
sorella. La violenza sulle donne è una caratteristica peculiare
del conflitto. Lo stupro è usato come tattica di guerra, sia dal
governo, sia dalle forze dell’opposizione, per degradare e umiliare
i civili nelle zone di combattimento.
Jamail suda copiosamente. Ha sete. Ma nessuno, dico nessuno
deve attraversare quel ponte. Spera quasi che ci provino,
ad attraversarlo. Che vengano pure. Non gli dispiacerebbe
di ammazzare qualcuno dei fottuti soldati nemici. Finanche
sua sorella, di dieci anni, è stata violentata da
alcuni soldati dell’esercito regolare. Uno di loro
rideva. Suo padre, che aveva tentato di proteggere la piccola, è stato
ammazzato, i familiari minacciati e vessati. Spera di incontrare
proprio quel maledetto stupratore di bambini, faccia a faccia,
per fargliela pagare; quando sarà grande, ci penserà lui
a proteggere sua madre, sua sorella ed i suoi fratellini,
con il suo bel fucile rilucente. Aldilà del cavalcavia,
si sentono rumori di spari e urla. L’odore che arriva,
da lontano, alle nari del piccolo Jamail è acre e
persistente: un misto di fumo e carne morta. Siccome si sente
combattere, pensa, vuol dire che tutti sono occupati a scannarsi,
e che nessuno arriverà sin qui.
Jamail è tenace, ma è da tanto che non mangia.
Spera tanto che, di lì a poco, lo chiamino per il
rancio. D’un tratto qualcuno arriva in lontananza:
si sta avvicinando alla sua postazione, al suo ponte, quella
stessa passerella che nessuno, dico nessuno deve attraversare!
Jamail stringe più forte il suo fucile, prende la
mira. Ecco, così lo fa secco con un sol colpo. È stanco,
affamato, assetato. L’odore dei cadaveri che proviene
da lontano lo ha anche un po’ intontito (succede così quando
lo si respira a lungo). Quel maledetto procede strisciando, è furbo,
vuole arrivare vicino a lui per coglierlo di sorpresa con
la biaonetta. Ma Jamail non ha paura di mancarlo. “Bang!”.
Beccato, in piena fronte.
Sono passate altre tre ore. Jamail ha fatto il suo dovere.
Adesso riflette. Magari quel bastardo che ho ammazzato ha
del denaro su di sé: come potrebbero tornare utili
un po’ di quattrini alla sua povera mamma sdentata,
che muore di fame! Jamail esce come un gattopardo dal suo
ricettacolo, cammina in direzione del nemico morto. Quando
arriva ad una decina di metri, si accorge che quello non
ha più le gambe. Staccate via da una mina, pensa.
Jamail è a meno di due metri. Non riesce nemmeno
a respirare. Non è possibile, non può essere
vero. Lì, davanti a lui, c’è Akeem. Privato
delle gambe, Privato della vita. Ho sparato ad Akeem: Akeem,
amico mio! Cosa farò, adesso, senza di te, senza i
tuoi preziosi consigli da veterano! Si china sul corpo senza
vita del compagno, lo solleva e lo abbraccia. Pesa. Rimane
a piangere immobile, su quel corpo di adolescente, per almeno
due ore quando, all’improvviso, sente arrivare qualcuno.
Non è un nemico, ma un disperato dello Spla, lo è venuto
a chiamare per il rancio.
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